Una delle “leggende nere” propagate per denigrare la politica perseguita dai Borbone e cancellare la memoria storica di un popolo che, a dispetto della vulgata filo-risorgimentale, era tutt’altro che emarginato dalla vita politica e sociale del Regno, è senza dubbio quella di una Calabria condannata all’isolamento e lasciata in stato di abbandono anche a causa della mancanza di strade. Vengono rispolverate pagine consuete, ma non sempre disinteressate, di viaggiatori inglesi e francesi, spinti non solo dal gusto romantico dell’avventura a visitare paesi e contrade di una provincia descritta come sperduta e periferica, ma talvolta anche da una non neutrale ricerca delle criticità del territorio, per dedurre da queste descrizioni gravi condanne nei confronti della politica borbonica.
In un mio studio di qualche anno fa ebbi l’occasione di mettere a confronto i principali autori di questa letteratura odeporica, ricavandone un dato interessante: lo stesso paesaggio viene vissuto dai singoli viaggiatori con sentimenti comuni a seconda dell’area geografica di provenienza, in modo tale da consentire di raggruppare, da un lato, coloro che sono maggiormente attenti ad evidenziare gli aspetti negativi (si tratta in gran parte di inglesi e, in misura minore ma non meno rilevante francesi), dall’altro quanti, invece, colgono le infinite bellezze del territorio, valorizzandone le tipicità dei tratti anche caratteriali e di costume degli abitanti. Come dire che neppure la letteratura di viaggio si sottrae a preconcetti e condizionamenti di natura ideologica. E’ dunque facile, fermandosi alla sola letteratura, leggere notizie abbastanza contraddittorie, di modo che il dilemma dell’esistenza o meno delle strade e del conseguenziale presunto isolamento delle Calabrie nel periodo preunitario tormenta ancora oggi le opposte “tifoserie”. Uno sguardo più attento a fonti non di parte può darci invece dati più realistici e farci scoprire verità neanche sospettate.
Il corposo volume di J.B. Richard intitolato Nuovo itinerario d’Italia, edito a Livorno nel 1838 lascia sorpreso il lettore, rivelando dati incontrovertibili.
Nel descrivere i tracciati delle vie percorribili lungo tutta la penisola italiana, dalle Alpi alla Sicilia, l’autore presenta la Calabria come una delle regioni più fertili dell’Italia, in cui i collegamenti non sembrano affatto mancare se da Castrovillari, posta al confine con la Basilicata, la strada si biforca lungo due direttrici, consentendo di raggiungere Tarsia, da una parte, e Rossano-Cariati dall’altra. A Cosenza passa la strada per Reggio, “che si appressa al mare a Policastro”, ma nei pressi di Scigliano si trova pure una strada maestra che porta, trasversalmente, a Catanzaro. L’asse viario principale è indubbiamente quello che da Cosenza arriva fino a Reggio, passando per Monteleone fino a Fiumara di Muro, dove la strada si biforca per condurre, rispettivamente, a Villa san Giovanni, da cui “si prende imbarco per Messina” ed a Reggio. La guida segnala che durante l’inverno “le strade sulla montagna fra Monteleone e Palma sono pericolose e malagevoli a motivo delle nevi e dei torrenti; perciò allora si va lungo la riva del mare, passando per Nicotera”, allungando così il viaggio di mezza posta. Per andare in Sicilia, la traversata da Villa san Giovanni è di 4 miglia, ma si può prendere imbarco anche da Reggio (in tal caso il tragitto è di 12 miglia).
Meno servita da strade restava, fino agli anni ’30 dell’800, la Calabria jonica, specialmente nella parte più a sud. Francesco Durelli nel suo scritto intitolato “Cenno storico di Ferdinando II” così descriveva la situazione viaria di quella zona negli anni antecedenti al 1840: “la provincia di Reggio nella parte lambita dallo Jonio ha tre sporgenti, addimandati Capo d’Armi, San Giovanni d’Avalos, Capo Bruzzano. Questi tre promontori di roccia granitica commista a filoni di quarzo hanno la base sì prossima al lido, ch’è dalle onde lambita, in tempo di perfetta calma, e nello stato di tempesta rimane ogni transito intercettato, sì che per l’addietro non solo il traffico ed il commercio restavano spesso interrotti, ma si avevano anche quasi annualmente a deplorare vittime dalle onde ingoiate”.
Nel 1840 il Re, recatosi personalmente in questi luoghi, ordinò “che su quelle rocce si aprisse una strada rotabile a conforto delle circostanti popolazioni ed a’ sicurezza de’ viaggiatori”.
Immediatamente il promontorio di Capo d’Armi fu tagliato a picco “per l’altezza di circa cento palmi” e si stipulò l’appalto dei lavori per gli altri due. Né sfuggiva al Re la necessità delle popolazioni joniche e tirreniche di comunicare tra loro, superando i disagi ed i pericoli dovuti alle asperità del territorio: ordinò dunque l’apertura di una strada rotabile tra Jonio e Tirreno, qualificata dal Durelli “opera malagevole, che tuttavia trovasi in costruzione”.
In una regione montuosa e ricca di torrenti, non mancavano certamente i ponti per consentire lo spostamento di persone e merci da una parte all’altra del territorio (benché in abbandono e totale degrado, essi sono tuttora esistenti: basti pensare al ponte sul fiume Angitola, splendido e non isolato esempio di architettura “borbonica”). Trattazione a parte meriterebbe la viabilità nella zona industriale delle Calabrie, tra Stilo, Mongiana e le Serre vibonesi e catanzaresi, in cui sorgevano le Regie ferriere e si compiva il ciclo produttivo del minerale che rappresentava una delle maggiori risorse del Regno; ragione per la quale vi era la necessità di stabilire collegamenti viari tra i diversi villaggi che cooperavano alla produzione industriale e, non ultimo, con il porto di Pizzo da cui i manufatti partivano alla volta di Napoli.
Ci sarebbe da chiedersi quali reali progressi nella viabilità calabrese, sono stati fatti negli ultimi 160 anni. Non si può non constatare, infatti, come la maggior parte delle strade sono ancora quelle del vecchio tracciato borbonico, magari ampliate e rese nuove dall’asfalto. Eppure, in senso dispregiativo e denigratorio, quando si vuole evidenziare la cattiva manutenzione delle strade da parte degli Enti preposti, non si esita a definirle “borboniche”: attribuzione che, in verità, dovrebbe soltanto evocare – ad una riflessione attenta e scevra da condizionamenti ideologici – l’operosità di un governo sempre attento al benessere dei sudditi. Attenzione di cui oggi da cittadini, e specialmente da calabresi, ci sentiamo del tutto privi.
Prof.ssa Mariolina Spadaro
Docente Università degli Studi “ Federico II” di Napoli